Oblio della memoria

Ago 16

Oblio della memoria

Che cosa ricorderemo del lockdown, della pandemia, di ciò che abbiamo vissuto finora sulla nostra pelle e di quello che abbiamo visto in televisione e sui social, delle storie ascoltate da altri, di tutte le notizie di cui siamo venuti a conoscenza? Non domani, ma tra un anno, tra dieci anni, cinquanta, che cosa saremo in grado di rievocare?

Che cosa tratterrà la memoria collettiva di questo evento e che cosa dimenticherà?

La memoria collettiva è l’insieme dei ricordi di un’esperienza vissuta da una comunità: ma questa è una definizione che dà solo una pallida idea della complessità dell’argomento. Per costruire una memoria collettiva servono i ricordi personali, che si basano su fatti ma ancor più sulle emozioni che quei fatti hanno suscitato e, si sa, l’emotività rende più difficile concentrarsi su realtà oggettive.

Essere testimoni oculari non dà alcuna garanzia di obiettività al racconto che viene comunicato. Il nostro giudizio è influenzato dal grado di coinvolgimento, da esperienze pregresse, da pregiudizi che ci portano a dare peso a certi dettagli e a rimuoverne altri,dettagli che interpretiamo in base alle nostre conoscenze e abitudini.

Un evento traumatico, poi, ci torna in mente sotto forma di frammenti di immagini, flashback e incubi che certo non si possono essere classificati come veri e propri ricordi. È così che il nostro cervello si difende.

La memoria collettiva deve essere ‘aiutata’ da altre fonti sia orali sia scritte, anche visive.

Possiamo rivolgerci alle notizie apprese dagli organi ufficiali di informazione, ma anche dai social fin dall’inizio della pandemia. Un inizio che non siamo in grado di datare con precisione e di certo già questa incertezza influenza la nostra percezione degli avvenimenti. Numeri, informazioni e opinioni sono stati dati secondo criteri che all’opinione pubblica sfuggono. Alcuni annunci hanno avuto più spazio di altri, ci sono state omissioni e conclusioni affrettate e poi smentite, anche invenzioni pericolose. Non è stato facile avere l’idea di ciò che è avvenuto nei mesi scorsi e in effetti non l’abbiamo avuta e non riusciamo ad averla. Inoltre, perché è umano, ognuno di noi ha seguito il filone in cui trovava conferma alle proprie convinzioni e da cui si sentiva confortato; abbiamo, cioè, operato una selezione più o meno consapevole. Quando ci saremo allontanati da questo periodo i nostri ricordi saranno supportati solo da ciò che abbiamo voluto leggere e ascoltare ma soprattutto dal ricordo delle nostre emozioni.

Perché possa essere conservata, la memoria collettiva della pandemia dovrà essere alimentata continuamente, anche quando i testimoni oculari non ci saranno più. Dell’‘influenza spagnola’ del 1918 pochissimi testimoni parlarono, non lo fecero i medici né gli scrittori, e le cronache erano dense delle vicende della guerra: tutto questo contribuì alla rimozione dell’avvenimento (Alfred Crosby, America’s Forgotten Pandemic. The Influenza of 1918).

L’emergenza, le esperienze, le perdite e quindi il dolore degli individui e della società non furono sufficienti a rendere salda la memoria collettiva così che nuove, prevedibili catastrofi potessero essere evitate. Nei mesi scorsi, invece, sono state molteplici le iniziative di raccolta delle testimonianze da parte di singoli individui e associazioni, e anche di istituti preposti alla conservazione della memoria come biblioteche, archivi e musei. Giornalisti e scrittori hanno pubblicato impressioni e cronache dei mesi di lockdown in forma di editoriali, libri, video. Gli psicologi hanno chiesto di rispondere a interviste utili a raccogliere le riflessioni e gli stati d’animo di chi abbia voluto dare un contributo alla narrazione. Tutti progetti straordinari, frutto di singoli slanci ma non coordinati fra loro. Basterà?

Ci sono già i primi sintomi di una rimozione degli eventi appena accaduti la cui analisi sarebbe invece assai utile. Lo vediamo constatando che alcun cambiamento strutturale sia stato avviato a livello sanitario, scolastico e istituzionale. Bisognerà continuare a spiegare i motivi delle epidemie virali, il loro legame con l’emergenza climatica e si dovrà mantenere viva tale consapevolezza negli anni, altrimenti sarà come se non avessimo imparato alcunché, come se la sofferenza fisica, psicologica, esistenziale di migliaia, milioni di persone non fosse valsa a niente.

 

Articolo pubblicato sul quotidiano ‘Trentino’ il 12 agosto 2020.

L’immagine scelta per il post proviene da Il Museo della Quarantena, la nuova ‘collezione’ curata dal Museo diocesano di Trento

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