Lo scandalo dei lavoratori della cultura

Set 02

Lo scandalo dei lavoratori della cultura

Laurea, possibilmente con il massimo dei voti, dottorato di ricerca e/o master di specializzazione, tirocini e stage, partecipazione a corsi professionali, conoscenza di almeno due lingue straniere, capacità e competenze informatiche, esperienze di lavoro in Italia e all’estero.

Questo elenco costituisce l’ossatura di un curriculum medio per lavorare nella cultura. Non solo in questo ambito, è ovvio, la differenza è data dall’uso che di questi curricula si fa nel settore culturale.

I laureati, tutti, hanno trascorso quattro o cinque anni della loro vita a studiare per affrontare al meglio il lavoro che li aspetta. Hanno pagato le tasse universitarie e le loro famiglie anche le tasse allo Stato. Hanno investito tempo, energie e denaro. Una volta completato il corso di studi, hanno scoperto che viene richiesta loro una formazione di più alto livello ed ecco nuovi investimenti di risorse personali, e, va da sé, il rinvio di una qualche forma di remunerazione nell’ambito lavorativo per il quale si stanno preparando da anni. Ogni tanto si tira fuori quella sterile polemica sulla differenza degli stipendi tra laureati e diplomati: insomma, senza fare questioni di merito, direi che il motivo è oggettivo. E comunque, queste grandi differenze non ci sono più da tempo, specie nel pubblico, specie nell’ambito culturale.

A ottobre 2019 il collettivo Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali ha presentato i dati della sua inchiesta “Cultura, contratti e condizioni di lavoro”, offrendo un campione di 1.546 situazioni lavorative in tutta Italia, dalle quali è emersa la realtà di paghe orarie tra i 4 e gli 8 euro l’ora, di professionisti specializzati che vivono sotto la soglia di povertà, di lavoro nero (“volontari” pagati con rimborsi spese falsi), di oltre tre quarti delle partite Iva aperte come condizione obbligata.

Nel rapporto si legge che a Trieste i lavoratori dei Musei sono pagati poco più di 4€ l’ora. A Venezia i Musei sono gestiti da una Fondazione che esternalizza tutti i servizi a CoopCulture, che a sua volta assume con il contratto Multiservizi a 7,50€ l’ora; a Milano e a Modena è stato annullato un appalto in quanto vinto con un ribasso ritenuto esagerato.

A Trento, il Muse ha visto i lavoratori in agitazione per le loro condizioni contrattuali e i conseguenti abbandoni di 92 guide. Senza mostrare alcuna attenzione al problema, ha pubblicato un nuovo bando per l’arruolamento di volontari cui affidare servizi museali. Possiamo parlare anche della quantità di Musei e istituti italiani aperti solo grazie a volontari.

La Biblioteca Bertoliana di Vicenza ha pubblicato un bando per volontari per il servizio di sala, in musei e biblioteche sono stati chiesti volontari con curricula importanti anche per coprire ruoli di direttore, come nel Comune di Deruta (Perugia), cui viene offerto un rimborso spese. La pesante situazione è generale: lo Stato non investe sulla cultura e gli Enti regionali e provinciali non hanno fondi per tutelare il proprio patrimonio e per permettere ai cittadini le sacrosante opportunità di bellezza, conoscenza, crescita e di re-investimento anche economico. Peccato che a leggere di sperperi ed esternalizzazioni di dubbia trasparenza si capisca come i fondi, se gestiti diversamente, in effetti ci sarebbero.

Il volontariato in sé non è negativo ma i volontari non devono sostituire i professionisti, li devono aiutare e se hanno proprie competenze, possono metterle a servizio della comunità. Dagli anni Novanta, in Italia i legislatori hanno creato le condizioni perché il patrimonio culturale fosse affidato soprattutto al volontariato. Questo ha portato all’abbattimento del costo del lavoro, alla scarsa qualità dei servizi e ha aumentato il lavoro nero.

Il riconoscimento professionale passa anche, o soprattutto, per un giusto riconoscimento economico. Questo vale per tutti gli ambiti lavorativi, ma solo in quello culturale è possibile perdere il lavoro a causa dei volontari, mentre la comunità – a sua insaputa – perde l’opportunità di migliorare la qualità della propria vita attraverso la valorizzazione del patrimonio culturale.

È necessario un cambio radicale nella politica culturale di questo paese. È vitale liberarsi dell’idea che ‘con la cultura non si mangia’. Perché con la cultura mangiamo tutti, professionisti e cittadini. Convincetevene.

 

L’articolo è uscito sul quotidiano “Trentino” del 30 agosto 2020

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