L’attesa

Feb 16

L’attesa

Alzi la mano chi non ha atteso qualcosa o qualcuno facendosi mangiare dal desiderio o dall’ansia, dalla curiosità o dalla paura. Alcuni di noi sono costantemente in attesa di un nuovo arrivo e di un ulteriore cambiamento. Altri passano ore ad aspettare autobus e treni. Poi ci sono quelli che subiscono il puntuale ritardo di partner e amici. Gli insonni aspettano il giorno, e gli stanchi l’ora di andare a dormire. L’attesa è uno stato dell’anima, che si protende verso ciò che ci aspettiamo accada, o verso un evento che ci è stato promesso.

Per attendere senza spendere troppe energie bisogna essere dotati di convinzione e pazienza. Soprattutto la seconda. La pazienza per capire quale sia il proprio tempo e il proprio luogo, per cogliere il momento giusto di un’azione. La pazienza di aspettare una risposta.

Alzi la mano chi non sta aspettando una risposta da qualcuno cui ha posto una domanda, o al quale ha spedito un messaggio o una lettera. Alzi la mano chi non si interroga sui motivi per i quali il nostro interlocutore non ha ancora risposto. I nuovi mezzi di comunicazione caricano di ulteriore frustrazione la nostra aspettativa: la trovata della spuntatura azzurra di Whatsap è stata il colpo di grazia per gli impazienti. Per il cuore, ci vuole una certa cautela perché l’attesa della risposta spesso diventa dolore. Nelle faccende altre, tipo quelle di lavoro, le motivazioni vere e presunte sono molteplici. Ma non è solo un problema dei nostri tempi.

Nella Biblioteca Ambrosiana di Milano è conservata copia di una lettera scritta nella prima metà del Trecento da un milanese a un suo conoscente di Cremona: «Ti scrivo, amico mio, perché da tempo non mi rispondi. Come mai? Fin dall’antichità Cremona è sempre stata considerata ricca per fortuna, arte e natura, ma vedo che ora ha perduto tutte le sue buone cose». Non fatevi trarre in inganno da questo tono conciliante. «Dove sono andati a finire gli strumenti scrittori del grande maestro Gherardo di Cremona? Dov’è il suo calamaio? Dov’è il calamo e dove sono le pelli?» Gherardo di Cremona è stato un importante scrittore e traduttore dall’arabo del XII secolo. Con il riferimento alle pelli, lo scrivente intende la pergamena su cui nel Medioevo si usava scrivere con il calamo, cioè con la penna di volatile. «Non ci sono più oche per fare i calami perché voi cremonesi ve le siete mangiate tutte?». Ecco che alza il tiro. «Se manca la tintura di galla per fabbricare inchiostro, ricordati che c’è la fuliggine delle padelle. Vi siete divorati anche i buoi, che mancano i corni per contenere l’inchiostro?». Il nostro sta elencando tutti i materiali utili per scrivere: la tintura di galla, il tannino, era uno degli ingredienti per la fabbricazione degli inchiostri e si usava mescolarlo con solfato di ferro o di rame. Dalle pentole di ceramica si poteva raschiare il fondo, nero per il contatto col fuoco, che sarebbe stato mescolato con l’acqua e una sostanza collosa. Così facevano anche gli antichi Egizi. «E se a Cremona è morto il il produttore di papiri, non manca certo la corteccia delle querce». Se non ci sono le pergamene e nemmeno i fogli di papiro su cui scrivere, si potranno sempre usare le cortecce degli alberi, che da sempre l’uomo usa per scrivere, facili da procurarsi e da utilizzare. Insomma, non ci sono scuse! Con una puntuta ironia, il nostro mittente assesta colpi ben riusciti all’amico, il quale – ci resta una sua parziale lettera – risponde in modo molto piccato. E allora noi (in attesa) potremmo chiedere a chi non ci risponde se sia vittima di un campo magnetico che fa saltare ogni possibilità di collegamento, o se gli hanno tagliato i fili del telefono. Se i tasti del cellulare siano stati fusi da un fulmine provocato dai nostri pensieri sempre più incandescenti. Ma mi raccomando, mai aggressivi e sempre costruttivi, come il milanese del Trecento, che trova la soluzione: «Vi manderò in dono un vitello ben grasso, e così, quando lo avrete ucciso, con le corna potrete farci i calamai, con la tibia una penna e con il sangue l’inchiostro».

 

articolo apparso sul ‘Trentino’ il 14 febbraio 2020

La traduzione del testo offerta in questo post è un mio riadattamento basato su quella pubblicata in Giliola Barbero, Lessico burlesco codicologico in un’epistola lombarda del sec. XIV, “Quinio” 3 (2001), 109-112. Il manoscritto ambrosiano di ciui si parla ha la segnatura N 227.

L’immagine che ho utilizzato è un particolare dall’opera L’attesa di Pino Ramunno.

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