Chi ha davvero paura, ora?

Nov 15

Chi ha davvero paura, ora?

La paura è con noi ogni giorno.

Assume varie forme ed è sollecitata da diverse motivazioni.

Che cos’è che fa paura? L’ignoto di domani, nel senso letterale del termine. Diamo per scontato che domani sarà il solito domani, ma non è detto che sarà così. Il ‘solito’: che cosa si intende per ‘solito’? Ogni giorno ci offre qualcosa di nuovo, a cominciare dal nuovo giorno. Non tutti ne hanno paura, per ottimismo o perché semplicemente non si ha consapevolezza dell’opportunità che ci viene offerta di ricominciare. Si ha paura di ciò che non si conosce, di quello che si avverte diverso da noi (da ciò che noi crediamo di essere), di quello che sappiamo di non poter controllare. Qualcuno ha paura della propria ombra, dice il Dizionario tra gli esempi dei modi di dire.

Si ha paura anche quando si percepisce che cosa potrebbe accadere se si permettesse un cambiamento. In questo caso, dallo stato emotivo si passa alla strategia della paura altrui e alla lotta contro la propria.

Quelli che bruciano le librerie nei quartieri periferici delle grandi città – per due volte, a Roma nel quartiere Centocelle, hanno distrutto la libreria ‘Pecora elettrica’ (nella foto) – lo fanno perché sanno perfettamente che la circolazione di libri e idee e le relazioni tra le persone che inevitabilmente e naturalmente ne conseguirebbero potrebbero destabilizzare il loro potere. Anche quelli che permettono che le librerie, i libri, vengano bruciati, che non li difendono, hanno paura. Ma se si arriva a bruciare i libri, vuol dire che la paura è esplosa. Pensano di mettere a tacere le idee, bruciando la carta che le contiene.

Ma chi deve difendere i libri, cioè le idee? Le autorità, e tutti noi. Soprattutto, noi.

Nel corso dei conflitti armati, sono i luoghi di cultura i primi a essere distrutti. Conservano, anzi sono loro stessi l’identità di un popolo, anche se il popolo non lo sa. Lo scopre dopo averli perduti. “Inutilmente, magnanimo Kublai, tenterò di descrivere la città di Zaira dagli alti bastioni. Potrei dirti di quanti gradini sono le vie fatte a scale, di che sesto gli archi dei porticati, di quali lamine di zinco sono ricoperti i tetti; ma so già che sarebbe come non dirti nulla. Non di questo è fatta la città, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato” (Italo Calvino, Le città invisibili. Le città e la memoria. 3, Milano 2017).

Qualcuno ha capito che nemmeno serve bruciarle, le librerie, basta farle chiudere, più silenziosamente e assai tragicamente.

L’autorità sa perfettamente che cosa significa controllare i luoghi della cultura: gli archivi, le biblioteche, i musei. È attraverso di questi che si possono far passare contenuti, parole, immagini quali forme di condizionamento e in alcuni casi di vero e proprio indottrinamento, senza che i più se ne accorgano.

“Arché [la radice della parola archivio, in greco], ricordiamocelo, indica assieme il cominciamento e il comando. Questo nome coordina apparentemente due principi in uno: il principio secondo la natura o la storia, là dove le cose cominciano […], ma anche il principio secondo la legge, là dove uomini e dèi comandano, là dove si esercita l’autorità, l’ordine sociale, in quel luogo a partire da cui l’ordine è dato” (Jacques Derrida, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, Napoli, 1996, p. 11).

È per questo che la gestione dei luoghi della cultura di una comunità viene spesso data in mano a persone incompetenti. Incompetenti, nel migliore dei casi, nel senso che non hanno la gestione della cultura tra le loro competenze. Ciò avviene per incuria e per calcolo. Verosimilmente si potrebbe considerare l’incuria come facente parte del calcolo.

Gli incompetenti sono scelti da coloro che non vogliono difendere le librerie che bruciano, e nemmeno quelle che chiudono; che non hanno interesse a tutelare le biblioteche e gli archivi e tutti coloro che ci lavorano.

La loro paura si mostra come l’arrogante e disgustoso strapotere di chi ignorante o sedicente tale intende fare tabula rasa delle eccellenze, delle opportunità di crescita sociale e culturale perché non c’è altro modo per continuare a esercitare quello stesso strapotere. Ma non è ignoranza né pressapochismo, è fascismo.

 

articolo apparso sul ‘Trentino’ il 10 novembre 2019

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