Di lotta, di amore, ma soprattutto di lotta
Nov 06
Lotta. E uno pensa ai pugni alzati del popolo cileno, di quello catalano. E dei libanesi, dei curdi, degli iraniani. Quelli degli indigeni dell’Amazzonia, dei giovani di Hong Kong, dell’Ecuador, della Bolivia, di Haiti: è la globalizzazione della lotta. Poi considera le lotte che si portano avanti per il rispetto alle donne, alle ‘minoranze’ e per il diritto alle ‘diversità’. La lotta del popolo, unido que mas serà vencido. Perché generalmente, la lotta, specie se politica, si fa in piena coscienza, e possibilmente insieme. In molti pensano che queste lotte siano troppe e troppo lontane anche solo per coglierne le informazioni, che non si fa in tempo a provare dispiacere e orrore per i curdi, che il Cile si ribella contro la dittatura. In molti pensano che sia sufficiente pensare per se stessi, ché già ognuno di noi è impegnato in una lotta quotidiana. Non c’è spazio né energia per gli altri. Tutti lottano, ogni minuto della propria vita. Per un ideale, per la giustizia, per i propri sogni (per concretizzarli o anche solo per averne). C’è la lotta di classe.
La lotta per la sopravvivenza si fa in piena disperazione e possibilmente insieme bisognerebbe accoglierla. Ci sono i combattimenti, quelli corpo a corpo, a giocarsi la vita o una medaglia. La lotta porta con sé sempre un’immagine di forza, se non di violenza, di certo di contrasto: c’è sempre in gioco un obiettivo da ottenere per cui è necessario un vincitore. Spesso la lotta è armata. Il grande movimento che si crea intorno a certi tipi di lotta impedisce a volte di vederne con chiarezza l’esito: come se si alzasse un polverone, una nebbia. Mi viene in mente, chissà perché, la lotta all’evasione fiscale.
Ma la lotta può essere, deve essere, con gli altri, per gli altri e non necessariamente armata. Uno dei miei punti di riferimento è Danilo Dolci, sociologo, poeta, educatore, attivista della non-violenza. Lui, senza violenza ma con atti di una forza unica, ha lottato contro l’analfabetismo, contro l’ingiustizia sociale, contro la mafia. Ha lottato per i più deboli. Dopo aver partecipato all’esperienza di Nomadelfia, nel 1952 si trasferisce a Partinico, nella provincia di Palermo. Qui trova una povertà sconvolgente. Il suo primo digiuno di protesta segue la morte per fame di un bambino di Trappeto. Trova i mafiosi legati a doppio filo con i latifondisti e con gli uomini di governo locali, e non solo e vede che tutti loro schiacciano una popolazione sfruttata, umiliata e senza forza per reagire. No, non senza forza, senza nemmeno l’idea che si possa reagire. Ma lui è l’uomo delle ‘utopie concrete’: le utopie sono ‘buone’ solo se si possono tradurre in un progetto, così diceva. Non invita a fare qualcosa per migliorare le condizioni, Danilo Dolci agisce. Lotta contro la disoccupazione con lo sciopero alla rovescia: i lavoratori scioperano e non lavorano, i disoccupati scioperano e lavorano. Il 2 febbraio 1956 centinaia di disoccupati avviano un lavoro di ripristino di una strada, resa intransitabile dall’incuria dell’amministrazione e dalla volontà dei proprietari terrieri di negare ai contadini ogni forma di comodità, persino quella di un movimento meno faticoso. Lo sciopero alla rovescia è fermato poche ore dopo da una carica della polizia. Gli organizzatori vengono arrestati ma Dolci è l’unico a non usufruire della libertà provvisoria: le autorità lo definiscono troppo ‘pericoloso’. L’opinione pubblica però reagisce. Il suo è un nome noto e gli appelli alla scarcerazione in Parlamento portano le firme di De Martino, La Malfa, Pajetta. Al processo celebrato a Palermo viene difeso da Piero Calamandrei. Dolci può continuare la sua lotta. È convinto che nessun progresso duraturo possa essere imposto dall’alto, l’intera comunità deve partecipare al miglioramento. Dolci, a Partinico e a Trappeto, e ovunque abbia lavorato, ha insegnato a cercare il valore che è in ogni essere umano – in ognuno di noi – ha reso possibile la formazione di una consapevolezza di sé e dei propri bisogni e anche dei propri sogni. Ha lottato per la pace, ma l’ha fatto a suo modo: “Prendo un vocabolario. Alla parola pace, trovo: «stato d’animo di serenità, di perfetta tranquillità non turbata da passioni o ansie; sinonimo di quiete; assenza di fastidio di preoccupazioni materiali, di dolore fisico; tregua; condizione di uno Stato che non si trova in guerra con altri. Riposare in pace = essere morto». Proprio questa è la pace necessaria al mondo, a ciascuno?”
articolo apparso sul ‘Trentino’ il 3 novembre 2019