Sospesi nel cielo. Prima puntata

Mar 01

Sospesi nel cielo. Prima puntata

Ho raccontato una storia che ora desidero condividere con voi, cari i miei dieci lettori. E lo farò a puntate…

Il momento della partenza era arrivato.

Quel giorno avevano organizzato una festa nella vigna con i vicini, con alcuni amici, tra i fiori e i profumi della primavera che, nonostante tutto, vinceva sempre. Tutti avevano portato un po’ di cibo e bottiglie di vino tirati fuori chissà da dove. L’intera famiglia, tranne Clara, costretta dalla febbre a restare nella sua stanza, s’era curata con l’abito migliore.

«Dobbiamo sembrare sereni – continuava a sussurrare la signora Maria – ed essere normali». Come se sembrare sereni ed essere normali fossero due naturali condizioni per le persone dabbene, e soprattutto di donne e uomini nel mezzo di una guerra. Poi la festa era finita.

«E la mamma?» il bambino, vestito per la partenza, s’era buttato per terra e parlò al padre senza nemmeno guardarlo. Era impegnato a trattenere i ricordi di ogni angolo e colore, di ogni odore della sua cameretta, quella in cui era nato, dove aveva giocato e fatto i capricci. Voleva portarsi via tutto, almeno in testa. Annusava il legno, sentiva sotto le dita tutti gli oggetti, nel cuore invece sentiva un grande dolore e gli veniva da piangere. Era il suo primo vero dolore, e nel giro di pochi minuti avrebbe avuto il secondo e poi il terzo…

Ogni tanto gettava lo sguardo sui soldatini. Erano la causa di un grave tormento e non riusciva a decidere se portarli con sé o buttarli via. Ci teneva tantissimo, da quando glieli aveva portati lo zio Carlo da Londra, dicendo che erano una nuova invenzione, che nemmeno i tedeschi avrebbero mai pensato a un’idea così geniale.

Quei soldatini li aveva solo lui a Trento, forse perfino in Italia, così gli aveva assicurato lo zio. Però adesso non gli piaceva più giocarci, con quelle loro divise così perfette, con quelle guance rosee. I soldati che incontrava per strada erano tutti pallidi, oppure neri di sporco, di fuliggine e di chissà che cosa. Tutti avevano negli occhi un’espressione di cui si rendeva conto ma che non riusciva a definire, e vedeva come alla nonna salissero sempre le lacrime quando incrociavano quei ragazzi, «No sta preocuparte, putel, non è niente».

Erano proprio loro, i soldati, quelli veri, la causa di quel viaggio che non aveva proprio voglia di fare, ed era per quello che non sapeva se portar via i suoi.

«E la mamma?» chiese ancora, stavolta alzando lo sguardo.

«Resta qui» gli fu risposto con un tono di voce strano, che non aveva mai sentito da suo padre. «è troppo debole per affrontare il viaggio. Vai ad abbracciarla e dille che ci vedremo presto».

Il piccolo si buttò sul grande letto dove la mamma cercava di riposare, per riprendersi da quella brutta febbre che l’aveva fiaccata tanto da impedirle di partire con i suoi.

«Non sarò da sola, Ettore, lo sai – gli disse piano la mamma – c’è la nonna, e anche Maria. Appena guarirò, verrò da te mio tesoro, sai che non posso resistere a lungo senza i tuoi abbracci» gli disse stringendolo forte a sé.

«Ho deciso che ti affiderò a Maximilian, e guarda che devi obbedirmi! – disse Ettore arrossendo un po’ per quell’audacia – Ti farà ridere e guarirai più in fretta». Entrambi guardarono il pingue micetto sdraiato a pancia all’aria sul letto della mamma e ovviamente non riuscirono a trattenere una risata. Rimasero per un po’ intrecciati tra lenzuola di lino e coperte calde. Ettore sentiva ancora l’odore della malattia, lui dall’olfatto così sensibile, una caratteristica che da sempre aveva avuto, lo sentiva ma gli pareva meno forte di qualche giorno prima. Si fidava del suo naso e decise che davvero li avrebbe raggiunti presto, e si tranquillizzò, anzi ne fu quasi felice. Voleva subito dirlo al papà ma lui lo interruppe: «Prendi i tuoi soldatini, Ettorino, ci giocheremo nella nuova casa. Vedrai che ci sarà spazio per schierarli quando saremo a Milano da Alfonso», concluse tentando un sorriso.

Nella rumorosa auto che li portava via, la tristezza stancò quel bambino, che si accoccolò fra le braccia del padre, in mezzo alle poche cose che avevano portato via. Fu così che nel buio di quel viaggio nascosto, il piccolo Ettore non si accorse delle lacrime che scorrevano finalmente sul viso di Giulio, il suo papà, che l’avrebbe tenuto stretto a sé fino a destinazione, là dove sperava di poter trovare un senso.

 

 

 

L’immagine che ho scelto è un particolare del Ritratto di Renato Gualino, di Felice Casorati

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