Un problema di cultura
Lug 10

Nel senso che di questa parola, ‘cultura’, credo che sfugga il vero significato. Eppure viene invocata quotidianamente. La cultura. Moltissimi, a volte involontariamente, addirittura la praticano, con totale sprezzo del pericolo. Altri ne diffidano, perché si pensa che la cultura (altrui) metta in evidenza il proprio non-sapere e anche, più spesso, perché chi dice di fare cultura ritiene di essere superiore .
Vorrei riflettere sul significato di questa parola. Poiché da più parti si continua a ricordare che le parole sono importanti – e sono d’accordo su questo – vorrei riflettere sui significati di alcune parole in particolare. Ho pensato che il primo termine su cui ragionare sarà ‘cultura’ (alla parola ‘intellettuale’ dedicherò il prossimo post).
Che cos’è la ‘cultura’? Il vocabolario (Sabatini-Coletti) dice: «Insieme delle conoscenze letterarie, scientifiche, artistiche e delle istituzioni sociali e politiche proprio di un intero popolo, o di una sua componente sociale, in un dato momento storico». Di un intero popolo: siamo quindi noi tutti, senza esclusione, a produrre cultura. Ma cultura è anche: «l’insieme di conoscenze su cui l’individuo esercita una riflessione critica autonoma e che pertanto hanno parte attiva nella formazione della personalità e nell’affinamento delle capacità ragionative». Queste conoscenze, e anche la capacità di una riflessione, l’individuo le apprende in famiglia, in gran parte a scuola, e poi, nel corso della sua vita, le consolida, le raffina, le approfondisce oppure le trascura, le sottovaluta, le butta via. Tutto questo è il risultato della scelta, più o meno consapevole, rispetto a ciò che si vuole fare del proprio talento e delle proprie potenzialità.
Esiste un Ministero per i beni e le attività culturali, che, appunto, si dovrebbe occupare di cultura. I beni culturali sono da considerare come “testimonianza materiale avente valore di civiltà” (Commissione Franceschini, 1964). I beni sono d’interesse storico-artistico, sono i monumenti, i beni archeologici, archivistici, librari e paesistico-ambientali, sono opere artistiche prodotte dall’uomo, che appartengono alla cultura e alla collettività. I beni culturali sono testimonianza storica e oggetto di educazione estetica, e, per questo, devono essere valorizzati e tutelati. I beni che entrano a far parte del patrimonio culturale esprimono dei valori che riproducono la società di cui sono espressione e poiché sono degli “unicum”, poiché non esiste un altro bene che corrisponda, in ogni suo aspetto, ai caratteri formali, estetici e simbolici di esso, gli si riconosce un valore economico, quindi redditività. Sottolineo, redditività.
La cultura, allora, crea identità e promuove anche la diversità culturale, perché diverse sono le forme di espressione:“Questa diversità è un attributo importante del capitale culturale soprattutto perché ha la capacità di creare la formazione di un nuovo capitale” (D. Throsby, Economia e cultura, Bologna 2005). La cultura agisce sul comportamento dell’individuo e del gruppo e grazie alla continua formazione rende possibile la crescita anche da un punto di vista dell’innovazione, cioè di nuove idee e di nuove iniziative, che naturalmente portano al miglioramento delle condizioni di vita.
La conoscenza, a partire dalla conoscenza di sé, non porta solo all’apprendimento, ma anche a una consapevolezza del proprio valore, del proprio potere, e dà spazio al bisogno di farsi sentire, di valorizzare la propria esistenza. A questo punto, la persona può trovare spazio, senso e importanza all’interno della comunità di appartenenza.
Tempo fa, al ministro Tremonti era stata attribuita la frase “non si mangia con la cultura” (ne avevo già parlato in questo blog, ma mi interessa riprendere il discorso).
Una frase che il ministro smentì immediatamente. Il punto è, però, che l’idea che la cultura sia inutile è terribilmente diffusa. Eppure sono in tanti quelli che ‘mangiano’ con la cultura. Io, tanto per cominciare, mangio con la cultura, e come me mangiano tutti coloro che lavorano nell’ambito della ricerca e dei beni culturali, con varie professionalità, spesso di altissimo livello, che tutto il mondo ci invidia (e non è un iperbole): bibliotecari, archivisti, restauratori, educatori, conservatori museali, catalogatori, lettori, docenti universitari, ricercatori fissi o a contratto, giornalisti, ecc.
Ci sarebbe poi la questione che la cultura per qualche strano motivo viene sempre distinta dalla scuola. Ma, grazie al vocabolario, ora possiamo dire che la cultura è anche scuola. Docenti, dirigenti, personale ATA e chiunque faccia parte della scuola mangiano con la cultura. Mangiano con la cultura coloro che i libri e i giornali li fanno, nel senso che li costruiscono, visto che partecipano alla diffusione e alla condivisione della cultura: editori, redattori, e naturalmente autori, illustratori, grafici, e poi ci sono i librai, indipendenti e non… Possiamo poi parlare degli artisti e dei musicisti che, per costituzione e letteratura, mangiano poco, ma comunque mangiano con la cultura.
Poi, e arriviamo al dunque, ci sono coloro che imparano a mangiare dalla cultura. Bambini, studenti, adulti… Chiunque può imparare grazie a ciò che di ‘culturale’ viene messo in circolazione. Ma il Sabatini Coletti dice che cultura è tutto ciò che ci riguarda, come popolo italiano. E tutti noi mangiamo, chi più chi meno. Queste conoscenze sono a nostra disposizione e possiamo usarle anche per comprare il pane. Figuriamoci se la cultura serve per comprare il pane..! E invece serve anche per questo: qual è il pane migliore per me e per la mia salute? Come è fatto il pane ché così ne possa giudicare l’adeguatezza? Quanto costa fare il pane ché così posso capire se il prezzo è giusto o meno? Che cosa devo chiedere quando vado a comprare il pane?
Quante domande. Ma che serva anche a questo, la cultura, a imparare a fare domande…?