Selvaggi e consapevoli
Feb 18
In questi giorni mi capita di avere per le mani alcuni testi. Neanche a dirlo, sono opere dedicate alla lettura e alla scrittura.
Nel libro Come diventare vivi. Un vademecum per lettori selvaggi di Giuseppe Montesano (Bompiani, 2017), tra i mille spunti che a dir poco mi hanno entusiasmato (ne consiglio caldamente la lettura), leggo alcuni passaggi sugli analfabeti funzionali.
Il primo, che mi colpisce, è quello in cui l’analfabeta funzionale, “che è in grado di compiere alcune azioni definite intelligenti ma è totalmente ignorante al di fuori dei compiti che svolge”, viene messo in relazione, anzi si confonde con colui che legge molto e che ritiene di essere superiore agli altri. Costui ritiene di “sapere tutto su qualcosa, incapace di considerare con benevolenza e apertura un’altra visione di quel qualcosa”, e dunque può essere definito “solo un piccolo dittatore culturale”.
Alcune pagine dopo, trovo in poche parole ciò che accomuna queste due ‘tipologie’ di persone. Scrive Montesano: “gli analfabeti funzionali […] sono anche analfabeti emotivi e mentali. La logica è stata requisita, e si oppone alla nostra vita come un nemico invisibile che parla con la voce della massa”.
La massa (composta – è utile rammentarlo – da singoli individui) evita accuratamente di porsi un problema, svicola dalla necessità di prendere una posizione critica, non sa, tanto per fare un esempio molto stringente e contingente, perché andrà a votare e men che meno per chi. O forse lo sa, meglio, crede di saperlo perché qualcuno, che ammira e che in realtà la sta manipolando, suggerisce nomi e motivazioni (ma in realtà le motivazioni non sono necessarie).
Eppure sembrerebbe semplice far inceppare questo meccanismo. Come? Leggendolo, dice Montesano, osservandolo e analizzandolo per vederne chiaramente gli angusti limiti, che non sono certo gli stessi della mente umana. Tutti possono leggerlo richiamando alla memoria la conoscenza che si è acquisita nel tempo ma che il poco ‘uso’, la scarsa pratica di gesti critici, ha reso quasi invisibile. Ma c’è.
Affronto un’altra lettura e mi viene spontaneo fare un collegamento tra ciò che ho letto, e che vi ho raccontato, e alcuni passaggi dell’introduzione alla Officina della parola. Dalla notizia al romanzo: guida all’uso di stili e registri di scrittura (Sironi, 2017) di Stefano Brugnolo e Giulio Mozzi. Questo libro, a detta degli autori, deve servire a rendere consapevoli i lettori di cose che sanno già, ma che vengono messe in pratica senza intenzione.
L’introduzione al libro comincia con una citazione da Il borghese gentiluomo, una commedia di Molière (1670). Il protagonista, Monsieur Jourdain, ambisce a un’istruzione che possa avvicinarlo ai nobili di corte. A un certo punto chiede al suo maestro di filosofia di aiutarlo a scrivere una lettera a una bella signora. Il maestro chiede se voglia scriverla in versi… Jourdain risponde no. Dunque in prosa, e Jourdain risponde nuovamente di no. Il maestro si stupisce: dovrà pur essere scritta in un modo o nell’altro. E perché? Chiede Jourdain. Perché per esprimerci possediamo solo la prosa o i versi. Tutto ciò che non è in prosa è in versi, e ciò che non è in versi è in prosa.
E quando si parla cos’è?
Prosa.
“Per tutti i diavoli! Sono più di quarant’anni che parlo in prosa senza saperlo. Vi sono molto grato di avermi informato”.
Un dialogo comico e geniale, che si burla dello stupore di Jourdain.
Quello stupore, invece, è al centro del lavoro di Brugnolo e Mozzi che, dicono, vogliono difenderlo e valorizzarlo. Perché ciò che fa la differenza è la consapevolezza.
La consapevolezza muove la testa e l’anima, e quello che conosciamo diventa concreto, efficace, importante. La qualità della nostra vita può solo migliorare.
La consapevolezza rende possibile riconoscere le nostre emozioni così da saperle finalmente esprimere; ci guida nell’analisi del mondo (scritto e non) e ci permette di vedere le scelte altrui, di porre delle domande, di farci venire dei dubbi.
Ma soprattutto, la consapevolezza di ciò che sappiamo ci porta a conoscere di più noi stessi e il nostro valore, la nostra capacità di relazionarci con le persone e con la realtà esterna. Ci aiuta a non diventarne succubi ma a viverla davvero.
La consapevolezza non può che essere sollecitata e, possiamo dire, educata dalla lettura, dagli strumenti che la lettura ci offre. Strumenti che possediamo tutti grazie alla scuola.
Dunque, amici, che dire?
Impariamoci di nuovo.
Sull’analfabetismo funzionale si vedano, tra le altre, alcune riflessioni di Tullio De Mauro e di Annamaria Testa.
Interessante è anche l’articolo di Claudio Giunta, non recentissimo, sul ruolo della scuola nell’insegnamento della scrittura. Un argomento su cui mi sono già soffermata altrove e sul quale cercherò di ritornare.
** Ho trovato in rete l’immagine che ho scelto per il post, ma non il nome dell’autore. A chi lo (ri)conosce chiedo di colmare questa mia lacuna. Grazie