Scrivere e pensare e camminare

Gen 03

Scrivere e pensare e camminare

Siamo così abituati ad avere parole scritte intorno a noi, che spesso non siamo pienamente consapevoli dei loro veri obiettivi e anche del modo più efficace per usarle. Quante forme di scrittura conosciamo? E come la usiamo, e perché? “Rappresentazione visiva, mediante segni grafici convenzionali, delle espressioni linguistiche”, così il dizionario definisce la scrittura. La scrittura non è una capacità naturale dell’uomo, ma nasce da una convenzione sociale e ogni convenzione che riguarda la società è decisa grazie all’intesa collettiva, per meglio dire, viene definita da una parte della società, generalmente quella dominante, che determina il valore o il significato di ogni aspetto della nostra vita di relazioni. Nel caso di parole scritte, si decide per convenzione anche la loro foggia e il loro uso, oltre che il senso e il significato.

Quando scriviamo, lo facciamo nelle forme e nello stile cui siamo abituati dall’esercizio scolastico, dalle esigenze di lavoro, dal piacere dell’uso di penna e carta, o di altri strumenti. Ci capita perfino di organizzare i nostri pensieri come se fossero scritti, con un ordine e con una gerarchia che rispecchiano le regole della scrittura di un testo, e che naturalmente dipendono dall’abitudine e dalla dimestichezza con la scrittura di chi sta pensando. Anche in quelle conversazioni che noi crediamo ‘spontanee’, usiamo la scrittura: pensate alle virgolette che mimiamo, per esempio. Senza quell’ordine, comunque, il fluire dei nostri pensieri spesso lo chiamiamo ‘delirio’.

Da sempre è attraverso la scrittura che si decide che cosa tramandare e che cosa dimenticare. È l’oblio della memoria, così viene definito da antropologi e storici, per il quale possiamo cancellare, o distruggere, casualmente o con intenzione, ciò che è scritto. Nella biografia di s. Anselmo d’Aosta, vissuto nell’XI secolo, si racconta come l’importante teologo avesse già perso la prima versione di una delle sue opere, il Proslogion, scritta su tavolette di cera. L’aveva affidata a un confratello il quale non riusciva a ricordarsi in quale posto ‘sicuro’ l’avesse messa da parte. Decise di riscriverla – ed era quindi un’opera diversa dalla precedente – ma qualche giorno dopo, forse per la sbadataggine di un altro monaco o forse dello stesso, trovò le tavolette a terra, ridotte in pezzi. Pur di non dover riscrivere ancora, ricompose il puzzle della sua opera che stavolta fece copiare subito su pergamena, per non correre altri rischi.

Non c’è solo la censura, quindi, a cancellare le parole scritte, cioè le idee, cui magari si pensa immediatamente quando si parla di cancellazione della memoria. Ci si mettono anche i monaci maldestri, le catastrofi naturali o le guerre.

Poi, si può anche solo cessare di scrivere qualcosa e così, in maniera meno drammatica forse, ma non meno potente, si smetterebbe di ricordare e poi di sapere qualcosa che un tempo è stato scritto.

Possiamo ‘dimenticare’ anche le forme di alcune lettere perché ne abbiamo modificato i segni, per comodità, forse, e per una maggiore leggibilità. A scuola abbiamo imparato dei segni di scrittura che poi abbiamo modificato crescendo e seguendo le nostre ‘inclinazioni’, di postura e di sensibilità, dimenticandoci del tutto delle forme delle nostre prime lettere.

La scrittura, spesso, è il mezzo che scegliamo per alleggerire l’anima da un peso e da un dolore. A volte condividiamo i nostri scritti con altri, altre volte li teniamo segreti.

I segni che usiamo per esprimerci, la cosiddetta cultura grafica, può rappresentare una comunità, uno Stato o società, un’etnia o una classe sociale.

I Tuareg descrivono così il loro modo di scrivere: «La nostra è una scrittura di nomadi: è tutta fatta di bastoni, e i bastoni sono le gambe di tutte le greggi: sono gambe di uomini, zampe di mehari, zampe di zebù, zampe di gazzella, gambe di chi percorre il deserto. E le croci dicono di andare a destra ora sinistra e i punti sono le stelle che guidano di notte, perché noi Sahariani conosciamo soltanto il cammino, il cammino che ha per guida, di volta in volta, il sole e poi le stelle» (Giorgio Raimondo Cardona, Storia universale della scrittura, Milano, 1986, pp. 153-154)

 

Nell’immagine di apertura: Pittura in caratteri tifinagh, artista tuareg Hawad

articolo apparso sul ‘Trentino’ il 18 dicembre 2019

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