Immagini: tra odio e amore

Lug 24

Immagini: tra odio e amore

Negli ultimi mesi, in varie parti del mondo sono state abbattute statue e sfigurate immagini che rappresentavano esplicitamente o simbolicamente personaggi e periodi storici ritenuti non più accettabili. In seguito alla morte di George Floyd per mano di alcuni poliziotti di Minneapolis, oltre alle manifestazioni di Black lives matter, abbiamo visto cadere monumenti spinti da folle senza controllo che hanno giudicato col senno dell’oggi uomini ed episodi del passato, da Cristoforo Colombo a Edward Colston, da Leopoldo II a Indro Montanelli, mescolando esigenze di giustizia a miopia culturale ma, soprattutto, sollevando interrogativi sull’uso stesso delle immagini. Perché riversare su simboli, figure, rappresentazioni di altri tempi le nostre rivendicazioni di oggi? Che senso ha abbattere una statua che è lì da secoli e di cui solo ora afferriamo uno dei possibili significati? Qual è il nostro rapporto con le immagini?

Siamo abituati alle immagini; le utilizziamo, le amiamo, le scegliamo. Molto spesso le subiamo, accettandole senza troppe domande. A volte ci sembrano più potenti della parola scritta e possiamo accusare i produttori di immagini di voler mistificare la realtà, di manipolare i giudizi attraverso scelte ben mirate, chiare a chi fornisce l’immagine ma non a chi ne fruisce.

La selezione delle immagini che ci vengono proposte è sempre in funzione del pubblico, ma il loro potere si realizza in uno schema circolare, secondo il quale anche coloro che le creano e le usano finiscono per essere condizionati dai simboli da cui hanno scelto di essere rappresentati. Chi propone un’immagine sa che questa deve essere assimilata dal pubblico che a sua volta ne fa un punto di riferimento, l’espressione di valori personali. Pensiamo per esempio ai simboli dei partiti politici.

Ma che cosa accade quando guardo una figura? Il primo passo è il riconoscimento: la riconosco perché l’ho già vista o perché il soggetto mi è familiare. Poi segue una reazione emotiva, per esempio di piacere o di fastidio, determinata dalla mia esperienza e dalla mia sensibilità. Dopo queste prime forme di accettazione, entra in gioco il cosiddetto “significato convenzionale”. Riesco a interpretare una particolare raffigurazione (un uomo con il cappello) o anche un atto (un uomo che si toglie o si tocca il cappello per salutare), perché sono in grado di riconoscerne il significato grazie ad abitudini e convenzioni che ho in comune con ciò che sto guardando o con colui che ha prodotto l’immagine (so, prima di vederlo, che un uomo si toglie o si tocca il cappello quando incrocia un conoscente perché lo vuole salutare). Infine, c’è il “significato intrinseco” che spiega il contenuto e la sua forma. A questo significato arriviamo coordinando un gran numero di esperienze simili che abbiamo fatto e che interpretiamo in base alle nostre conoscenze. Tutto questo accade appena entriamo in contatto con una figura ed è solo l’inizio: avere presente la complessità delle nostre percezioni ci aiuterebbe a dare il giusto peso all’immagine che abbiamo davanti.

Delle molte funzioni delle immagini si ragiona fin dall’inizio della storia dell’uomo, così come dei pericoli. Nell’alto medioevo una delle questioni più dibattute all’interno della Chiesa era che l’immagine di Dio o di un personaggio sacro non dovesse essere adorata come fosse il dio presente. Gregorio Magno, papa tra il 540 e il 604, in una lettera all’eremita Secondino che gli chiedeva della priorità tra parola e immagine, paragonò la pittura a una scrittura che riconduce alla memoria del figlio di Dio, anche se è attraverso le parole che il Signore si è espresso per cui l’immagine dev’essere sottomessa alla parola. Quando papa Gregorio venne informato che Sereno, vescovo di Marsiglia, stava facendo distruggere tutte le immagini sacre presenti nelle chiese della sua diocesi perché erano diventate oggetto di adorazione da parte dei fedeli, gli scrisse ammonendolo a smettere. Solo grazie a quelle raffigurazioni, agli affreschi, alle statue nelle chiese gli analfabeti avrebbero potuto conoscere le vicende sacre. Chi non sapeva leggere e non aveva cultura avrebbe potuto acquisire, grazie alle immagini, il senso della storia, anche attraverso l’esercizio della memoria.

Diventa chiaro anche per noi, dunque, che distruggere immagini non abbia alcun senso. Imparare a leggerle, invece, ne ha davvero molto.

 

articolo uscito sul quotidiano Trentino il 21 luglio 2020

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.