Donne e studio

Ott 17

Donne e studio

Saper riconoscere l’operato di una donna è sempre molto difficile, e lo è per le donne e per gli uomini. Si leggano, a esempio, i titoli dei giornali degli ultimi giorni: le scienziate vincitrici del Nobel per la chimica sono diventate “Thelma e Louise”, quella per la fisica è soprattutto una madre e per la letteratura erano in lizza “Murakami e una donna”. Per spiegare questo fenomeno si indicano vaghe motivazioni ‘culturali’ forse derivanti da questioni psicologiche, insicurezza, complessi di inferiorità, mescolate ai tradizionali stereotipi di genere in cui cadono anche i migliori. A questi motivi si può aggiungere un’abitudine, quasi una tentazione, a limitare le donne in ruoli – in primis quello materno – che si ritiene impediscano il successo in altri ambiti. Per esempio, nello studio.

Ancora oggi bambine e ragazze fanno più fatica dei loro coetanei ad accedere agli studi. La situazione è molto pesante nei paesi in via di sviluppo, ma anche nel civilizzato occidente si comincia a percepire una certa preoccupazione rispetto alle discriminazioni che le ragazze subiscono quando le famiglie più povere si trovano di fronte alla scelta di far loro proseguire gli studi. Nel passato imparare a leggere e a scrivere era complicato anche per gli uomini, ma alle donne la scuola era proibita. Nella prima metà del Quattrocento, san Bernardino da Siena incoraggiava gli uomini a coltivare la conoscenza perché senza cultura sarebbero stati vicini allo zero, mentre per le donne senza cultura non c’era problema, anzi, sarebbe stato grave che ne avessero, poiché l’unico loro compito era di essere «guardia e massaia della roba». Con lui era d’accordo Leon Battista Alberti, umanista e architetto, suo contemporaneo, che voleva le donne più «utili a custodire le cose». Le cose ma non i documenti, che lui teneva in cassetti chiusi a chiave, perché era compito degli uomini conservare le carte e le donne non le dovevano né leggere né tantomeno vedere.

Poche furono le ragazze che riuscirono ad imparare a leggere e a scrivere: era più facile se appartenevano a famiglie ricche, purché i loro padri si distinguessero per essere particolarmente liberali e permettessero alle figlie una cultura sufficiente a renderle più interessanti per il matrimonio. L’unica scuola permessa a tutte, ma solo a partire dal Settecento, era quella dove si insegnavano i cosiddetti lavori femminili. Purché tacessero il più possibile (il tema del silenzio è ricorrente), alle donne era consentito di essere istruite con i primi rudimenti della fede, perché a loro era affidata la cura morale e religiosa della famiglia. Ancora nei primi anni del Novecento alle bambine si insegnavano i principi dell’igiene, il valore del denaro, le si preparava ad affrontare le malattie più diffuse «invogliandole di quella modesta gaiezza che rende cara e piacevole anche l’abitazione povera», come recitava un articolo del 1912 sul giornale L’Educatore. Ma se le bambine erano trattate diversamente dai loro coetanei, anche le maestre avevano molti problemi ad affermare la loro professionalità perché venivano considerate meno brave dei colleghi, e percepivano uno stipendio inferiore anche se spesso lavoravano di più e con maggiori difficoltà. Viene da pensare che non molto sia cambiato da allora, così come non è cambiato lo stupore di fronte a casi di ingegno femminile, tanto che si sente il bisogno di sminuirlo.

Eppure, le donne hanno sempre lottato per il loro diritto a saper leggere e scrivere, e alla conoscenza. Molte sono state le ragazze che hanno imparato a scrivere da sole, fosse soltanto quella frase che permetteva loro di firmare una ricevuta per un commercio, fossero quelle poche parole per scrivere un biglietto a una persona cara e lontana.

Nei documenti del Cinquecento, così come nei diari delle donne del Novecento, quei pensieri spesso prendono corpo in segni maldestri con sgrammaticature e macchie d’inchiostro che diventano prove di un apprendimento grafico derivato più dall’iniziativa personale che non per la frequentazione di una scuola. Eppure quell’incertezza e quegli errori assomigliano più a delle ‘medaglie al valore’ che non a una scarsa perizia da condannare. Sono piuttosto degli esempi da seguire e delle storie da raccontare.

* Nell’immagine di apertura il ritratto di Christine de Pizan

articolo pubblicato sul quotidiano “Trentino” il 13 ottobre 2020

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