Archivisti attivi. Intervista con Federico Valacchi

Mar 24

Archivisti attivi. Intervista con Federico Valacchi

Federico Valacchi è professore ordinario di archivistica e archivistica informatica presso l’Università di Macerata dove insegna dal 2002. I principali ambiti di ricerca sono attualmente quelli legati al rapporto tra tecnologie dell’informazione e archivi, di cui fu uno dei primi a occuparsi in Italia. Da anni si spende in pubblicazioni e iniziative per promuovere un modo diverso di mettere in comunicazione gli archivi e tutto il mondo che c’è intorno… È il fondatore di Archivistica attiva.

Che cos’è Archivistica attiva?

È fondamentalmente una comunità di valori: un gruppo social che prima dell’archivistica condivide dei valori, fatti di passioni, emozioni, partecipazione, e che ha trovato poi stabilità di contenuti in un blog, Archivisticattiva. In questo modo si è voluto creare uno spazio di discussione, un punto di incontro e talvolta di scontro, per staccarsi dai ‘soliti’ argomenti, o, meglio dal solito modo di trattarli.

Dalla fondazione del gruppo, nel luglio 2017 abbiamo già raccolto l’adesione di circa 1000 persone, ma c’è ancora poca partecipazione al dibattito. Il nostro obiettivo principale è quello di stimolare il cambiamento di uno ‘stato d’animo’ nelle persone che fanno questo mestiere, attraverso la discussione, soprattutto in quelle che lo fanno dall’esterno delle istituzioni. Vorremmo sollecitare tutti a (ri)mettersi in gioco. Per questo si è pensato di portare la discussione anche fuori dal web, e lo abbiamo fatto a Torino e a Trento.

Già prima della vostra iniziativa alcuni studiosi e archivisti hanno riflettuto su questi problemi. Penso a Claudio Pavone e a Isabella Zanni Rosiello, fra gli altri, che tu stesso citi in alcuni tuoi articoli. Perché ancora è necessario insistere su tali questioni?

L’archivistica italiana è evoluta scientificamente, ma rispetto a un modo di comunicare l’archivio, fra tutti vale l’esempio dei National Archives britannici, si fa ancora molta fatica ad abbandonare un linguaggio troppo tecnico, tipico del canale istituzionale.

Si pretende che i fruitori conoscano a priori il linguaggio archivistico frutto di pratiche secolari ma spesso impenetrabile ai più. L’idea che ne esce sembra restituire addirittura una visione gerarchica dell’intero universo.

In realtà i fondi archivistici “in natura” sono molto meno gerarchici delle loro rappresentazioni. I grandi sistemi SAN, SIAS, SIUSA, rispecchiano gli archivisti ancora prima che gli archivi, pur desiderando raggiungere il mondo che è ‘fuori’ dagli archivi.

E dunque che cosa è necessario fare?

Poiché è necessario, anche per garantire la sopravvivenza non solo degli archivi ma proprio della dimensione sociale e politica che da essi deriva, dev’essere maggiormente sentita la necessità di riflettere sulla disciplina e sugli archivisti. Non si può lasciare che l’archivistica sia fine a se stessa.

Bisogna guardare alla tradizione come punto di partenza non come esaurimento della tensione professionale ed emotiva. Gli archivisti maneggiano strumenti per la conservazione della memoria e per la costruzione di una società, ma dobbiamo ricordare che sono appunto strumenti, utili per condividere conoscenza e permettere che la società possa consolidarsi e crescere. È qui che l’archivio riesce a rispondere alle istanze culturali e politiche che gli vengono richieste: quando contribuisce a una progettualità che è sociale, non limitata al proprio ambiente.

Quali sono i modi per rinnovare la comunicazione degli archivi?

Questo bisogno di un’archivistica capace di comunicare con il mondo circostante e desiderosa di raccontarsi al di fuori e al di là di rigidi schematismi, ci avvicina per analogia alla public history (storia pubblica o, meglio storia per il pubblico: è costituita da una vasta gamma di attività svolte da persone, formate nelle discipline storiche, che operano generalmente al di fuori di ambienti accademici specializzati) e ci fa parlare di un’archivistica pubblica, una public archival science, che sia innanzitutto narrazione e condivisione.

Raccontare gli archivi più che evocare fatti, significa evidenziare percorsi conservativi, far emergere valori, spiegare cioè i presupposti dei fatti e le ragioni dell’archivio. Nello sforzo narrativo emerge la volontà dell’archivista di affermare il proprio ruolo e i propri valori.

Ricordiamolo bene, però: l’archivistica non si inventa, né si improvvisa e qualsiasi sforzo di comunicazione è vano se non muove da rigorose basi scientifiche e disciplinari.

È per questo che hai pubblicato il volume Archivi, concetti e parole (Bibliografica, 2018)?

Quel libro è una sorta di autoanalisi, ma anche un gioco fatto con le parole, un gioco di parole. Un gioco che poi è stato condiviso durante la Notte della ricerca 2017 di Macerata, in una performance dal titolo ‘La notte degli archivi viventi’, durante la quale ci siamo esibiti nella lettura di parole archivistiche.

Il mio obiettivo era di destrutturare il severo linguaggio archivistico, declinandolo in definizioni ai limiti dell’archivisticamente corretto, dimostrando che c’è spazio anche per le emozioni, per i pensieri più reconditi, per le passioni.

Ma chi è Baffo?

Il cane Identità e il coniglio Thomas Baffo sono i miei eroi… Ho scritto un racconto, Il cane identità alla scoperta del grande castello, la cui idea ha ispirato Salvatore Renna, illustratore e autore del bel libro di favole e illustrazioni Eterna Primavera (Corato, Fos Edizioni, 2017), che con i suoi prodigiosi strumenti li sta rendendo i protagonisti di un fumetto e poi, molto probabilmente, di un cartone animato.

La moltiplicazione delle forme espressive può rivelarsi assolutamente decisiva nell’ampliare e diversificare le possibili fasce di utenza. Identità e Thomas Baffo sono due eroi positivi incaricati della missione di distruggere l’apparente ossimoro archivistica-immaginazione.

 

Si veda, tra i diversi articoli che Federico Valacchi ha dedicato a questo argomento:

Bonaini, Top’ivio e il “gato Archivaldo”: possono gli archivi essere (anche) divertenti?, “Capitale Culturale”, 1 (2010)

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